Continuano i rincari di pasta e altri prodotti finiti, e a farne le spese sono i consumatori. Qualcuno vuol far credere che sia colpa dei produttori di grano, ma le cose non stanno così. Vi spieghiamo perché.
I rincari
Continua l’aumento inflattivo dei costi delle materie prime a livello internazionale. È un fenomeno ricorrente sul mercato mondiale, che però a livello interno rischia di avvantaggiare solo alcuni segmenti delle filiere. Nella pratica, si traduce in rincari per i consumatori, come vediamo in questo periodo con il pane, la pasta e altri derivati del grano. Il costo della pasta, per esempio, è aumentato del 38%. Così come raddoppiano o triplicano i costi per concimi e sementi per gli agricoltori che vengono stritolati da dinamiche speculative. Ma il vero nodo è l’aumento dei costi energetici.
Dai dati storici e tendenziali, tuttavia, si può prevedere un rientro dei prezzi delle materie prime, in particolare del frumento. Ma non è altrettanto scontato l’abbassamento dei prezzi di pane, pasta e altri prodotti.
La versione dei trasformatori
Gli articoli di stampa di questi giorni riconducono quasi sempre i rincari di questi alimenti base per gli italiani all’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia. Ma questa, appunto, è solo una piccola parte della storia. Una piccola parte che prende per verità assoluta la versione raccontata dai trasformatori, che siano molitori o pastai, i quali addossano le responsabilità dei rincari sui produttori di grano.
Secondo alcuni importanti pastai che ricevono grande attenzione da importanti testate, sarebbero i produttori a rialzare i prezzi con l’aumento della domanda di materia prima. Ma non è vero. La verità è che i prezzi del frumento rientrano perfettamente nei parametri di equa redditività, specie per una merce di qualità elevatissima come il grano italiano, e meridionale in particolare, privo di contaminanti e dalle proprietà organolettiche uniche al mondo.
In realtà, si è assistito a un considerevole rincaro del prezzo delle semole (semilavorati), e di conseguenza della pasta e del pane (prodotto finito), esagerato rispetto alle quotazioni nazionali del grano.
Soprattutto, questo rincaro non è giustificato nel medio-lungo periodo, quando vi sarà un raffreddamento delle quotazioni del grano.
Del resto sono gli stessi mugnai a dichiarare: «In assoluto, in termini di raccolto globale, siamo di fronte a un record: il grano c’è ed è tanto. Il prezzo si potrà poi ridimensionare sulla prima parte dell’anno prossimo (2022), quando arriveranno sul mercato i raccolti di Australia, Canada, Argentina e Stati Uniti, che tendenzialmente sono in grado di calmierare la situazione».
I nodi critici
Il vero nodo è l’impatto dei costi energetici sul sistema produttivo. Quest’anno la bolletta energetica sarà di 37 miliardi per le imprese, contro gli 8 miliardi del 2019 e i 21 miliardi del 2020. E’ come avere scaricato l’intero costo della finanziaria sul sistema industriale. Ecco perchè mentre gli aumenti delle materie prime sono di natura congiunturale, questi aumenti energetici rimarranno strutturali, quindi il costo sarà alto anche in futuro. Ma gli industriali pastai non lo dicono chiaramente e preferiscono addossare le colpe agli agricoltori! Il silenzio di Coldiretti sul tema la dice lunga: invece di controbattere e difendere gli agricoltori vittime di una tenaglia speculativa (costi materie prime, concimi e sementi, e prezzi bassi delle borse merci locali) preferiscono rincorrere la tesi del costo delle materie prime mondiali. E’ vergognoso!
A rendere ancora più complicata la situazione nel mercato cerealicolo italiano, vi sono questioni antiche che talvolta portano a dinamiche distorsive. Innanzitutto, il paradosso di una forte importazione da paesi extraeuropei del grano, una materia prima che sulla carta è uno dei fiori all’occhiello dell’agricoltura italiana. Negli anni, nonostante le raccomandazioni contenute nel Piano cerealicolo nazionale, non si è incentivato il rafforzamento della produzione nazionale.
Questo è il momento giusto per recuperare terreno sul fronte italiano: nell’ultimo decennio in Italia, abbiamo assistito ad una perdita di quasi mezzo milione ettari coltivati con effetti dirompenti sull’economia.
Risultato: la leva import-export viene non di rado usata per falsare il mercato nazionale, e spesso a rimetterci sono i produttori.
Dove si formano i prezzi del grano in Italia? La sede utilizzata finora è stata quella delle Borse merci presso le varie Camere di commercio, in primis quella di Foggia, vista la prevalenza di questa produzione nel territorio pugliese. Tuttavia, lo strumento delle Borse merci è ormai obsoleto. Due anni fa, come Granosalus ha puntualmente e ripetutamente riferito, una sentenza del TAR Puglia ha annullato i listini della Borsa merci di Foggia (degli anni 2016-17) perché ha riconosciuto senza possibilità di equivoci la presenza di meccanismi distorsivi nella rilevazione dei prezzi del grano, non basata su dati documentali bensì su accordi orali.
Che cosa significa? Significa che il produttore di grano non ha alcun peso nelle decisioni riguardanti il suo prodotto e che ci vuole un altro strumento che garantisca maggiore trasparenza nella formazione dei prezzi del grano.
La CUN
Il ministero dell’Agricoltura proprio a questo scopo ha istituito, in via sperimentale, la Commissione unica nazionale (CUN) del grano duro. Le CUN sono un istituto previsto espressamente dal MIPAAF e già ne esistono in altri settori, come quello cunicolo, suinicolo e avicolo. Sono tavoli tecnici dove siedono sia le parti acquirenti (i trasformatori, pastai ecc.) sia le parti venditrici (i produttori di grano) rappresentati dalle principali organizzazioni sindacali. Sulla base di un report di dati statistici forniti da ISMEA e sulla base delle dichiarazioni scritte dei commissari della CUN si procede a una formulazione previsionale dei prezzi in modo trasparente.
Tutto roseo sulla carta. Peccato che questa CUN stia trovando non pochi ostacoli. Per diverse volte consecutive la parte acquirente, cioè gli industriali, hanno disertato le riunioni della CUN. Non si può non sospettare un vero e proprio boicottaggio. Forse non va giù che sia messo in discussione il loro potere dominante. In realtà l’introduzione di un registro carico e scarico per cereali e sfarinati ha suscitato grande perplessità, o meglio ancora, forte malessere, nel comparto molitorio. Insomma, la trasparenza richiesta dai consumatori viene vissuta come un sentimento anti industriale nel nostro Paese. Il punto è che adesso per ripicca non si fanno vedere alla CUN ma sono molto presenti alle Borse merci, dove vanno a fissare i prezzi secondo i loro desiderata e in maniera anticoncorrenziale.
Produttori in fermento
Nel frattempo, pare che i produttori agricoli siano sul piede di guerra. Qualcuno, infatti, sta valutando di adire le vie legali tramite una class action se il boicottaggio andrà avanti, e di richiedere il risarcimento del danno per atto illecito in base all’articolo 2947 del Codice civile.
Non solo. Ma nessuno dice che gli agricoltori sono pure costretti ad acquistare urea o altri azotati, a prezzi stellari: Urea a 920 euro/t, nitrato ammonico 33% a 850 euro/t, biammonico 18/46 a 820 euro/t e pure i fosfatici. Senza considerare il raddoppio del prezzo del grano da seme. Strano però che i concimi microgranulari non abbiano subito nessun incremento di prezzo: costano 250 euro/ton come gli altri anni Perchè? Forse c’è poca richiesta dal mercato? Non è dato saperlo! La speculazione non deve essere disturbata.
Vedremo come andrà a finire la guerra dei prezzi, sperando che a rimetterci non siano i consumatori. Speriamo, in ogni caso, nell’azione vigile dell’Antitrust su questi aumenti e nel loro monitoraggio a lungo termine. Vi terremo aggiornati.