Noi di GranoSalus vogliamo iniziare, quest’oggi, con una riflessione (a tratti) un po’ provocatoria: ti sei mai chiesto, nei panni di consumatore, cosa accade quotidianamente quando intere comunità rurali basate sull’ agricoltura cominciano a perdere i loro punti di riferimento?
Difatti, il risultato di questa trasformazione è molto più stravolgente di un mero “cambio di scenario”. Negli ultimi dieci anni ben tre quarti delle imprese agricole che hanno chiuso si trovavano proprio nelle aree collinari e montane del nostro Paese e hanno affrontato una rivoluzione con la R maiuscola su larga scala.
E così, pian piano, il tessuto rurale impregnato di tradizioni si è trasformato in un insieme di campi abbandonati e di borghi che si svuotano.
Il futuro della ruralità tricolore
A ben vedere, la faccenda non si limita a un tracollo economico: insieme alle aziende, infatti, spariscono anche le pratiche agricole consolidate nei decenni e le antiche varietà locali che per secoli hanno dato carattere e gusto alla nostra biodiversità.
È un dato che ritorna in modo allarmante: 330 mila giovani laureati tra i 25 e i 39 anni hanno lasciato le aree interne per cercare migliori opportunità nelle città e/o nelle metropoli, lì dove l’orizzonte professionale pare più concreto.
Per tutta risposta i territori perdono forze fresche, idee innovative e tutto il potenziale che serve per ridare linfa all’agricoltura mediante l’impiego delle nuove tecnologie.
I problemi in Italia (e non solo) correlati all’agricoltura rurale
A complicare le cose, poi, ci pensano infrastrutture carenti – trasporti, banda larga e via dicendo – che isolano ancora di più queste zone già “ai margini” fino a rendere improbabile ogni seria prospettiva di investimento produttivo.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Spesso, la risposta risiede in un modello agricolo che non garantisce redditi dignitosi, aggravato da una filiera troppo poco generosa con le eccellenze locali.
Ti dice niente, consumatore, la cipolla rossa di Tropea, la lenticchia di Castelluccio o il pomodoro del piennolo del Vesuvio?
Tutti prodotti ricercati ovunque, dalle grandi città italiane ai mercati esteri, eppure pagati agli agricoltori a prezzi irrisori. È un paradosso: mentre nei centri urbani si esalta la tipicità made in Italy chi coltiva i gioielli della tradizione fatica davvero a guadagnarci qualcosa.
Il grano, una vera eccellenza alla base della dieta mediterranea, sinora non è mai stato valorizzato.
Come se non bastasse, l’abbandono dei campi porta con sé conseguenze pesanti sul piano ambientale. Secondo gli ultimi studi di ISPRA nelle aree agricole dismesse il rischio frane aumenta considerevolmente.
Senza chi si prende cura del territorio il dissesto idrogeologico dilaga, e i costi si riversano sull’intera collettività. Non solo: la mancanza di una regolare gestione apre la strada a specie invasive che scardinano gli equilibri ecologici faticosamente costruiti nel corso di generazioni.
Soluzioni possibili? Una prospettiva inedita sull’agricoltura moderna
Ad ogni modo in questo scenario non mancano alcuni contesti portatori di speranza. A Castel del Giudice, in Molise, un gruppo di giovani ha deciso di rimboccarsi le maniche: ha avviato la coltivazione di meleti biologici e la produzione di sidro artigianale che oggi trova spazio anche nei mercati europei.
E l’esempio molisano non è l’unico.
Tutto gira intorno al racconto. Sì, hai capito bene: la storia che costruiamo attorno ai nostri prodotti può condurli lontano, molto più in là dei confini del nostro comune o della nostra regione.
E adesso la domanda è: come trasformare queste idee in un vero e proprio rinascimento delle aree interne? Secondo chi crede in questo approccio ci vorrebbe un sostegno mirato e concreto affinché le regioni possano mettere a frutto la propria unicità.
In altre parole, fermare l’emorragia di forza lavoro e competenze non basta: occorre anche valorizzare un patrimonio culturale e ambientale che, se ignorato, rischia di scomparire. In questo, la buona politica e la programmazione dal basso possono fare molto.
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